TREVISO, OTTOBRE 2019
Con la sentenza n. 26041/2019, la Corte di Cassazione ha fornito chiarimenti in ordine alla possibilità di riconoscere l’attenuante nell’ambito del reato in questione, con ripercussioni decisive anche in materia di pene accessorie.
In tema di bancarotta fraudolenta, rileva la Corte, il giudizio relativo alla particolare tenuità del fatto deve essere posto in relazione alla diminuzione, non percentuale ma globale, che il comportamento del fallito ha provocato alla massa attiva che sarebbe stata disponibile per il riparto ove non si fossero verificati gli illeciti (Cass., 18.01.2013, n. 13285; Cass. 18.01.2013, n. 19304). Al riguardo, con sentenza 5.12.2018, n. 222, la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 216, u.c. L.F., nella parte in cui dispone “la condanna per uno dei fatti previsti dal presente articolo importa per la durata di 10 anni l’inabilitazione all’esercizio di una impresa commerciale e l’incapacità per la stessa durata ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa”, anziché “la condanna per uno dei fatti previsti dal presente articolo importa l’inabilitazione all’esercizio di una impresa commerciale e l’incapacità ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa fino a 10 anni”.
La sostituzione operata dalla sentenza citata, prosegue la Corte, determina l’illegalità delle pene accessorie irrogate in base al criterio dichiarato illegittimo, indipendentemente dal fatto che quelle concretamente applicate rientrino nel nuovo parametro, posto che il procedimento di commisurazione si è basato su una norma dichiarata incostituzionale. Detto principio, elaborato in relazione alle pene principali dalla Corte di Cassazione nella sua composizione più autorevole (Sez. Unite 26.02.2015, n. 33040; Sez. Unite 26.02.2015, n. 37107) è stato ritenuto estensibile anche a quelle accessorie non essendo consentita dall’ordinamento l’esecuzione di una pena (principale o accessoria) non conforme, in tutto o in parte, ai parametri legali. Di qui si impone pertanto l’annullamento della sentenza impugnata, con obbligo per il giudice del rinvio di attenersi, nella rideterminazione della durata della pena accessoria non più fissa (10 anni), ma indicata solo nel massimo (fino a 10 anni), ai criteri fissati dalla pronuncia della Corte Costituzionale indicata e da quella delle Sezioni Unite, cui la questione specifica è stata rimessa in data 10.12.2018.
Infatti, concludono i giudici, si è posto il problema di individuare il genere di intervento manipolativo cui sottoporre l’art. 216, u.c. L.F., tenuto conto che la Corte Costituzionale ha reputato insoddisfacente il parametro di cui all’art. 37 c.p., propendendo per consentire, per tali pene, una funzione distinta rispetto a quelle proprie della pena principale, fissando una durata diversa rispetto a quella della pena detentiva inflitta in concreto. A fronte delle considerazioni che precedono, la Corte di Cassazione ha annullato la sentenza impugnata, limitatamente al punto delle pene accessorie, ex art. 216, u.c. L.F., con rinvio per nuovo esame ad altra sezione della Corte di Appello di Milano.
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